Referendum Trivelle: i motivi per votare Si e quelli per cui votare No

Nel dibattito riguardo il Referendum sulle trivelle pubblicate sulla piattaforma di Pro\Versi 5 tesi per il Sì e 5 tesi per il No

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Andrea Boraschi, responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace Italia, e Piercamillo Falasca, direttore editoriale di “Strade” e membro del comitato “Ottimisti e razionali”, ci spiegano rispettivamente 5 ragioni fondamentali a supporto del referendum sulle trivellazioni e 5 ragioni contro il referendum stesso.
Per Boraschi, se vincesse il sì al referendum del 17 aprile si porrebbe un limite temporale alla presenza ingombrante e inquinante delle piattaforme sotto costa e ciò non comporterebbe alcun deficit energetico per l’Italia né la perdita di posti di lavoro. Di diverso avviso Falasca, per il quale, se vincesse il sì, aumenterebbe la dipendenza energetica dell’Italia da paesi fornitori di energie fossili e andrebbero persi oltre 30mila posti di lavoro. Il referendum del 17 aprile mira ad abrogare una legge introdotta appena due mesi fa, secondo la quale le attività di ricerca ed estrazione attualmente in corso, nella fascia marina entro le 12 miglia, non abbiano una scadenza certa. Per Andrea Boraschi “il governo ha previsto che […] queste piattaforme che estraggono pochissimo, sia in termini di gas che di petrolio, potranno continuare a farlo senza un termine certo e questo consentirà di fatto alle compagnie di rimandare[…] il momento della dismissione e soprattutto il momento dello smantellamento” delle piattaforme stesse. Per Piercamillo Falasca, invece “questo referendum […] danneggia l’intera credibilità dell’Italia come luogo di attrazione di investimenti produttivi internazionali”. Boraschi smentisce l’utilità di queste attività estrattive sia per quanto riguarda la bilancia energetica nazionale sia per le casse dello Stato: “le piattaforme incluse oggi nel tratto di mare tra la costa e le 12 miglia, producono un quantitativo di gas che è l’equivalente del 3% dei consumi annui nazionali e in termini di petrolio producono molto meno, qualche misero decimale”. Inoltre, evidenzia ancora l’esponente di Greenpeace Italia, “questo gas e questo petrolio, una volta estratti, non sarebbero italiani, sarebbero delle compagnie”. Alla luce di questo, con la vittoria del sì al referendum, l’Italia non avrà alcuna necessità di aumentare l’import di energie da fonti fossili da paesi esteri. In opposizione a chi sostiene che tali attività estrattive garantiscono un gettito per le casse pubbliche, Boraschi sottolinea che “per estrarre in Italia gas e petrolio le compagnie petrolifere pagano le royalties più basse del mondo: appena il 7% del valore di quanto estraggono”, inoltre, “la maggior parte di questi impianti sono così poco produttivi da rimanere entro una soglia di produzione, che è definita franchigia, al di sotto della quale non si pagano royalties”. Su questi aspetti si esprime anche il direttore di “Strade”, sostenendo che “Se vince il sì, aumenterà la dipendenza energetica di gas dell’Italia dalla Russia e dai paesi arabi”; “dovremmo rinunciare a circa 340 milioni di euro che è quello che le compagnie del gas naturale e del petrolio hanno pagato nel 2014 alle casse dello Stato e delle regioni. Qualcuno dice che in Italia le royalties sono troppo basse. Allora lavoriamo per quello: lavoriamo per aumentare le royalties che le compagnie pagano allo Stato”. Nonostante la maggior parte di esse estragga gas, una fonte energetica pulita, “le piattaforme oggetto di questo referendum inquinano e lo fanno oltre i limiti previsti dalla legge”.  In base a quanto verificato da Greenpeace, intorno a queste piattaforme si rileva una contaminazione grave e diffusa, fatta di “metalli pesanti e idrocarburi. I valori di questi inquinanti sono tre volte su quattro […] al di fuori dei parametri di legge”, sostiene ancora Andrea Boraschi, mentre per Falasca “non sono le piattaforme, ma le petroliere la causa del catrame che purtroppo a volte arriva sulle nostre coste, danneggiandole”. Per il fronte del sì al referendum, con l’abrogazione della legge in oggetto, non andrebbero persi posti di lavoro, Boraschi, infatti, afferma che la dismissione di questi impianti avverrebbe nell’arco di diversi anni e ciò graverebbe su pochissimi posti di lavoro: “sono strutture controllate da remoto […] e non prevedono la presenza costante di lavoratori […] son richieste saltuariamente attività di manutenzione”. Per il fronte del no, invece, “andranno persi migliaia di posti di lavoro. Ci sono 11mila persone direttamente impiegate in attività estrattive. Altre 21mila che operano nell’indotto”. La vittoria del sì, secondo Boraschi, costituirebbe un importante messaggio per il governo, quello di cambiare indirizzo e di non puntare più sulle fonti energetiche fossili: “questo paese può garantirsi prospettive di indipendenza energetica puntando solo sulle fonti rinnovabili e sull’efficienza”. Mentre per Falasca “per aumentare l’occupazione nell’alta tecnologia nelle rinnovabili abbiamo bisogno anche del lavoro di chi oggi si sta occupando al petrolio e al gas naturale in Italia”

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